domenica 20 novembre 2016

Trump presidente, come investire sul dollaro forte

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A distanza di otto sedute dalle elezioni Usa i mercati finanziari hanno confermato la prima forte reazione al risultato delle urne: il dollaro ha proseguito la sua corsa, i mercati obbligazionari internazionali hanno reiterato il balzo dei rendimenti e i metalli preziosi, oro in testa, si sono assestati su un livello di prezzo vistosamente più basso rispetto alla vigilia del voto.
Nel frattempo Wall Street viaggia su quotazioni record, spinta dai settori più favoriti dalla Trumpeconomy e dai titoli a media capitalizzazione, che, avendo all’interno dagli Stati Uniti la gran parte del proprio business, si trovano meno esposti al superdollaro e alle possibili rivisitazioni delle politiche americane rispetto al commercio con l’estero.
Superdollaro di cui hanno goduto i frutti coloro che hanno puntato, come suggerito, sulla moneta americana contro l'euro (utilizzando il broker ETX , che offre le migliori condizioni di spread sulla coppia eur-usd e non solo).

Questo quadro non lascia dubbi interpretativi: l’aumento della spesa pubblica finalizzata soprattutto alla realizzazione di infrastrutture e la riduzione delle imposte, che si trovano ai primi posti del programma elettorale di Donald Trump per un importo che potrebbe essere nell’ordine di 1.000 miliardi di dollari, sono elementi tali da spiazzare l’attuale politica monetaria espansiva della Federal Reserve, che quindi dovrà necessariamente diventare più restrittiva per controbilanciare l’espansività della politica fiscale. In caso contrario l’inflazione Usa rischierebbe seriamente di sfuggire di mano. La genesi del superdollaro. Non è un caso che in campagna elettorale il neo-presidente Usa abbia tacciato la numero uno della Fed Janet Yellen di essere troppo accondiscendente in materia di tassi, mantenendo troppo a lungo il costo del denaro su livelli estremamente ridotti e consentendo così l’insorgere di bolle speculative.

E non è un caso che la Jellen, nell’audizione al Congresso di giovedì 17, nel ribadire la volontà di portare a termine il suo mandato (che scade a fine gennaio 2018, ndr) abbia sottolineato che il secondo ritocco ai tassi potrebbe essere ormai prossimo e che la banca centrale Usa monitorerà da vicino l’andamento delle variabili macroeconomiche chiave per prevenire spinte indesiderate all’inflazione, sebbene il mercato dei lavoro presenti ancora qualche margine di miglioramento. Il riferimento finale alla possibilità che il mantenimento dei tassi sugli attuali bassi livelli per un periodo di tempo eccessivamente lungo sia in grado di incoraggiare un’eccessiva assunzione di rischio, compromettendo la stabilità finanziaria, è stato poi interpretato così: il 14 dicembre si assisterà al secondo rialzo di un quarto di punto del costo del denaro dopo quello di fine 2015, dopodiché la banca centrale americana potrebbe anche muoversi più velocemente nel corso del prossimo biennio per controbilanciare, appunto, la maggiore espansività della politica fiscale.

Questo è lo scenario che dal 9 novembre, giorno dell’ufficializzazione della vittoria di Trump, è stato progressivamente scontato nei prezzi dei titoli di Stato americani: da quel giorno il segmento dei Tips, ossia i T-bond legati all’inflazione (tipo il Btp Italia o il Btpei), ha registrato un cedimento del prezzo che ne ha innalzato il rendimento dello 0,32-0,35%, implicando un tasso di inflazione in crescita dall’1,6% attuale verso la soglia del 2% entro i prossimi 12 mesi. Le stesse attese inflative, e le mosse conseguenti della Fed, hanno mosso al ribasso i prezzi di T-Bond e T-Note (i classici titoli di Stato a tasso fisso) portando il rendimento del decennale dall’1,77% del 4 novembre al 2,3% di oggi e quello del trentennale dal 2,59 al 3,1%; di rilievo anche il balzo dei rendimenti del quinquennale, passati dall’1,22 all’1,67%.

A ruota è seguito il dollaro: l’aspettativa di assistere a una Fed meno colomba rispetto al 2016 ha stimolato gli acquisti della valuta statunitense portando a un rafforzamento del cambio contro tutte le divise.

Il cambio dollaro/yen, partito da quota 105 dell’8 novembre, ha infatti conquistato senza indugio l’importante livello di 106,5-107 per fare rotta verso il successivo obiettivo posto a quota 111,5, corrispondente ai massimi da inizio aprile e stimolando gli acquisti di azioni sulla piazza giapponese (+4,6% del Nikkei dall’8 novembre) grazie alla capacità aggiuntiva di export derivante dall’indebolimento dello yen. L’euro/dollaro si è invece lasciato alle spalle la soglia di 1,08 facendo rotta verso l’obiettivo posto tra 1,055 (massimo stato di forza degli ultimi 12 mesi, raggiunto nel dicembre 2015) e 1,045 (massimo dell’ultimo biennio, segnato nel marzo 2015 in scia all’annuncio del Qe da parte della Bce).

Se quota 1,055-1,045 è potenzialmente raggiungibile entro il 4 dicembre, data del referendum italiano (in riferimento al quale l’eventuale vittoria del no costituirebbe un ulteriore motivo di rafforzamento del biglietto verde), la capacità di spingersi poi verso la parità tra euro e dollaro in un’ottica di ampio respiro, ipotizzata da Goldman Sachs per l’ultimo trimestre del 2017, dipenderà molto dal prossimo meeting della Bce in agenda l’8 dicembre: se in quell’occasione verrà ampliato o prolungato il programma di Quantitative easing in atto (il cui termine è al momento formalmente fissato per marzo 2017), allora si amplierà la divergenza tra politica monetaria della Fed (restrittiva) e quella dell’Eurotower (ultraespansiva) rendendo appunto più a portata di mano la parità tra le due valute.

Punta quindi sul dollaro ma evita di regalare commissioni e spread a banche e intermediari del forex. Con ETX , broker autorizzato inglese, potrai pagare uno spread di soli 0,7.

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