lunedì 15 febbraio 2016

Previsioni dollaro. Perché tornerà a salire

Breve pausa per la corsa del dollaro. Ma nel lungo termine la valuta Usa tornerà a un più debole rialzo Il rialzo dei tassi da parte della Fed, operato lo scorso dicembre con l’assenza di nuovi interventi il 26 gennaio, è il chiaro segnale che, nonostante la debolezza delle economie emergenti, gli Usa hanno intrapreso la strada di una crescita regolare seppur modesta. Ma quanto durerà la forza del dollaro? Il mercato fino ad oggi si è mosso in modo dollarocentrico.

Ma questo equilibrio sembra essere saltato nella bufera che ha colpito le valute più esposte alle materie prime. «Mi aspetto che questa dinamica continui - spiega Matteo Paganini, capo analista di Fxcm - perché il mercato non ha ancora delle aspettative credibili su quando arriverà il prossimo rialzo dei tassi. In questo lasso di tempo il dollaro americano potrebbe scendere. Ma nel lungo periodo il dollaro tornerà, seppur poco, a rafforzarsi. E guardando i grandi flussi di capitali un dollaro su questi livelli anche per l’economia americana non è troppo forte».

 Secondo l’esperto nel breve termine l’euro potrebbe salire, ma non oltre 1,15 verso dollaro mentre nell’arco di un anno, la valuta americana potrebbe tornare ad un livello ragionevole sempre nei confronti dell’euro di 1,04/1,05 (oggi siamo a 1,09). «Quindi, la situazione resta bidirezionale in un range abbastanza stabile» - conclude Paganini. «Mentre un dollaro forte potrebbe non essere un problema per l’economia Usa, lo è per il resto del mondo - gli fa eco Yves Longchamp, capoeconomista di Ethenea I.I - in particolare per quei paesi la cui divisa si è apprezzata rispetto al biglietto verde, come ad esempio il renminbi cinese».

 Oggi il dollaro, a parere degli esperti, è sopravvalutato, anche alla luce dell’attuale ciclo economico americano. «L’indicatore chiave della forza dell’economia americana è il tasso di crescita del credito bancario - precisa Giuliano D’Acunti di Invesco Italia -. Gli Usa sono l’unica grande economia in cui la crescita del credito bancario è tornata alla normalità (6-8% l’anno) ed è fondamentale che, con l’aumento dei tassi, il credito continui a crescere pressoché alla stessa velocità».

Per D’Acunti, sulla base di queste considerazioni, la forza dell’economia statunitense e la stretta della politica monetaria da parte della Fed dovrebbero sostenere il dollaro statunitense, ma nel breve termine continueranno ad esservi opportunità in controtendenza. «Non vi sono ragioni per cui un euro non debba valere un dollaro, e forse meno - conclude D’Acunti - ma assisteremo probabilmente ad un’ulteriore resistenza tecnica nella fase in cui questi livelli vengono testati prima che il dollaro possa rafforzarsi».

mercoledì 10 febbraio 2016

Le valute sottovalutate rispetto all'euro su cui puntare

Dal Big Mac Index risulta che molte divise soprattutto emergenti sono sottovalutate sulla moneta unica Franco svizzero troppo “caro” e divise emergenti, a partire dal rublo, profondamente sottovalutate. A dare un responso così netto sulle principali valute, messe a confronto con l’euro, è il Big Mac Index.

Si tratta dell’indice creato confrontando i costi del famoso panino della catena di fast food americana. Inventato nel 1986, e rivisto a inizio 2016 come accade periodicamente, l’indice si fonda sulla parità del potere d’acquisto. Il punto centrale è che il rapporto di cambio tra due divise dovrebbe muoversi in modo che lo stesso bene preso in considerazione (il Big Mac in questo caso) abbia il medesimo costo nelle due valute prese in esame. Il rapporto della parità di potere d’acquisto del Big Mac tra due valute si ottiene dividendo il costo di un panino nell’area euro ad esempio con un costo dello stesso panino in Turchia, ad esempio. Questo valore viene confrontato con il tasso di cambio attuale. L’ultima classifica mostra che il franco svizzero è la valuta più “forte” rispetto all’euro.

Forse troppo forte. «A giudicare dai livelli di parità di potere d’acquisto - spiega Saverio Berlinzani, trader forex - il franco sembrerebbe sopravvalutato di circa un 10-15 per cento rispetto all’euro. In linea teorica potrebbe perdere terreno dopo l’abbandono del peg (ancoraggio, ndr) da parte della Swiss National bank , avvenuto il 15 gennaio del 2015. Nel frattempo l’euro cerca faticosamente di riguadagnare la soglia di 1,10, sempre contro il franco. La Snb ha ancora in portafoglio una grossa quantità di euro acquistati in area 1,20, e la caduta della moneta unica le aveva causato perdite ingenti. Tra le altre valute sopravvalutate contro la moneta unica, corona svedese e norvegese sembrano essere quelle più forti, anche a causa delle politiche monetarie delle rispettive banche centrali, restie ad adottare un Qe stile Bce».

 Sul versante opposto spicca la debolezza delle valute emergenti, sempre secondo il Big Mac index, a partire dal rublo. «Nel caso in cui i mercati azionari dovessero tenere i minimi visti nell’ultimo periodo - conclude Berlinzani - potrebbero diventare interessanti per i rendimenti offerti. Personalmente vedo abbastanza bene il rublo, nel caso di stabilizzazione del petrolio, rand sudafricano e lira turca. Meno allettanti le divise del sud est asiatico».

lunedì 8 febbraio 2016

Ecco perché il dollaro tornerà a salire nel 2016

Il biglietto verde si sgonfia, il petrolio prosegue nel tentativo di recupero mentre le Borse nicchiano in un’estenuante altalena in un trend di fondo che rimane ancora incerto e impostato al ribasso.

L’ultima giornata sui mercati finanziari ha restituito queste sensazioni agli operatori che narrano di una Borsa molto tecnica e, in assenza di notizie che possano imprimere una direzione precisa, rivolgono le attenzioni alle configurazioni grafiche con un occhio ai movimenti del petrolio e all'andamento del cambio euro/dollaro. Secondo un esperto interpellato da Reuters per Piazza Affari «solamente il raggiungimento del livello chiave di 17.800 potrebbe fare girare il mercato, ma dopo il sell-off visto in questi giorni è difficile che cambi il trend». Ieri, al termine di una seduta da montagne russe il listino milanese (più volte in direzione negativa nell’intraday) ha chiuso con un guadagno dell’1,23% (facendo meglio delle altre Borse europee, con Francoforte in calo dello 0,44%) completando un difficile mini-rimbalzo, con l’indice generale che si è posizionato a 17.600 punti che, in ogni caso, rappresentano il livello di settembre 2013. 

Resta il fatto che la Borsa milanese in due mesi ha perso un quarto del suo valore. Osservando la tempesta finanziaria delle ultime settimane (-17% da inizio anno per Milano, - 22% per Shanghai e -7% per Wall Street) i progressi fatti negli ultimi anni in termini di ritorno alla crescita (seppur molto timido) e di risanamento dei conti pubblici italiani (con il deficit/Pil sotto il 3% nonostante in questo momento ci sia bisogno di riattivare la domanda potenziando spesa e investimenti) sembra che non siano mai stati fatti. Così come pare che il quantitative easing avviato a marzo 2015 dalla Bce non sia servito a molto - al di là di tenere basso l’euro, che peraltro si tiene basso anche perché gli Stati Uniti sono stati i primi ad invertire la politica monetaria con l'effetto di un rafforzamento del dollaro nell’ultimo anno e mezzo. Lo stesso «Qe» che invece, fatto dalla Fed con largo anticipo e già nel 2009, ha fatto raddoppiare la capitalizzazione a Wall Street da allora.

I bancari a Milano ieri hanno rialzato un po’ la testa (+1,92%) ma da inizio anno resta il bagno di sangue (-28%). Peraltro non si tratta di un fenomeno isolato. Il settore bancario europeo ieri è tornato positivo (+2,5%) ma da inizio resta sotto del 20 per cento. L’entrata in vigore della normativa europea sul bail-in (salvataggi bancari non più appannaggio degli Stati) presenta ancora elementi di incertezza sulla ricaduta che questa potrebbe avere in termini di fiducia della clientela. Allo stesso tempo la tegola dei crediti deteriorati (per quanto siano maggiori in proporzione per le banche italiane) è un tema forte anche per alcuni importanti istituti di credito europei.
Nel frattempo il focus degli investitori in queste ore si sta spostando sulla Federal Reserve: i mercati ormai non solo scontano che a marzo non ci sarà nessun rialzo dei tassi (come invece da programma) ma a questo punto stanno mettendo in dubbio anche il rialzo preventivato a luglio. Gli ultimi dati macro che arrivano dall’economia statunitense indicano una situazione di decelerazione: a dicembre gli ordini di fabbrica sono scesi del 2,9% e gli ordini di beni durevoli sono arretrati del 5% a fronte del -4,5% stimato. In più le richieste di sussidi alla disoccupazione la scorsa settimana sono aumentate di 8 mila unità, salendo a quota 285 mila. Gli analisti avevano previsto un incremento minore, a quota 281 mila unità.
Numeri che stanno spingendo le vendite sul dollaro: il dollar index - che misura l’andamento del dollaro su un paniere delle più importanti valute globali - ha perso il 3% in una settimana. L’euro si sta rafforzando: ieri è tornato a superare 1,12 dollari, circa il 4% in più rispetto a pochi giorni fa quando girava intorno a 1,08. Si tratta di un movimento ampiamente prevedibile, così come il calo dei rendimenti dei titoli di Stato statunitensi che viaggiano intorno all’1,8%, i livelli di aprile 2015 (mentre i BTp decennali sono all’1,53% con spread sul Bund in rialzo a 123 punti). Mentre molti operatori fanno francamente fatica a capire l’attuale trend ribassista dei mercati azionari europei (nonostante il mini-rimbalzo di ieri di Piazza Affari) sempre più lontani dai fondamentali. A questo punto le spiegazioni possibili sono due: 1) gli investitori stanno iniziando a scontare uno scenario potenzialmente recessivo; 2) i mercati sono preda di vendite “dovute” e quindi slegate dai fondamentali da parte di alcuni fondi sovrani che starebbero reagendo in questo modo alla flessione degli ultimi mesi del prezzo del petrolio, per recuperare liquidità in grado di finanziare i conti pubblici. Intanto il petrolio basso (-70% da luglio 2014) continua a mietere vittime negli Usa: la texana ConocoPhillips , ha chiuso gli ultimi tre mesi con una perdita di 3,5 miliardi di dollari. E un’altra texana, la Occidental Petroleum, ha perso nell’ultimo quarto 5,18 miliardi, il rosso più ampio degli ultimi 25 anni. Dalla guerra delle valute siamo a quella delle materie prime. Difficile immaginare dove ci porterà.

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