lunedì 28 novembre 2016

Il dollaro verso la parità con l'euro

Il biglietto verde galoppa e si avvicina sempre più alla parità con l’euro.

Il dollaro continua a rafforzarsi e ora è arrivato a 1,063 dollari per un euro (+2,6 % settimana scorsa), sostenuto da diversi elementi. Il primo è la Fed, la Banca centrale Usa, che ha affermato che il rialzo dei tassi arriverà “relativamente presto”, scadenza che il mercato ha interpretato come il prossimo dicembre, visto che prevede il rialzo con un 90 % di probabilità. Ma non è tutto. La ricetta economica di Trump, fatta di maggiori spese e tagli delle tasse, promette di stimolare la crescita e su queste prospettive il mercato si aspetta allora che nel 2017 i tassi continueranno a essere alzati – e così il dollaro ha guadagnato ancora terreno.

Infine bisogna anche tenere conto di un terzo elemento. I timori sull’eurozona. Prima di tutto c’è infatti da vedere cosa farà la Banca centrale europea con il piano di acquisto di titoli, ma soprattutto preoccupa la tenuta a livello politico dell’intera zona e le difficoltà di alcuni Paesi, con in testa l’Italia. Lo testimonia come sta andando lo spread – cioè quanto paga in più un BTp decennale italiano rispetto al Bund tedesco di pari durata – arrivato anche sopra i 180 punti.

Tirando le fila di quanto detto, continua a puntare sul dollaro ma fai attenzione ai costi. Sfrutta Forex broker come ETX che fa pagare lo spread più basso in Europa sulla coppia EUR-USD.

domenica 20 novembre 2016

Trump presidente, come investire sul dollaro forte

A distanza di otto sedute dalle elezioni Usa i mercati finanziari hanno confermato la prima forte reazione al risultato delle urne: il dollaro ha proseguito la sua corsa, i mercati obbligazionari internazionali hanno reiterato il balzo dei rendimenti e i metalli preziosi, oro in testa, si sono assestati su un livello di prezzo vistosamente più basso rispetto alla vigilia del voto.
Nel frattempo Wall Street viaggia su quotazioni record, spinta dai settori più favoriti dalla Trumpeconomy e dai titoli a media capitalizzazione, che, avendo all’interno dagli Stati Uniti la gran parte del proprio business, si trovano meno esposti al superdollaro e alle possibili rivisitazioni delle politiche americane rispetto al commercio con l’estero.
Superdollaro di cui hanno goduto i frutti coloro che hanno puntato, come suggerito, sulla moneta americana contro l'euro (utilizzando il broker ETX , che offre le migliori condizioni di spread sulla coppia eur-usd e non solo).

Questo quadro non lascia dubbi interpretativi: l’aumento della spesa pubblica finalizzata soprattutto alla realizzazione di infrastrutture e la riduzione delle imposte, che si trovano ai primi posti del programma elettorale di Donald Trump per un importo che potrebbe essere nell’ordine di 1.000 miliardi di dollari, sono elementi tali da spiazzare l’attuale politica monetaria espansiva della Federal Reserve, che quindi dovrà necessariamente diventare più restrittiva per controbilanciare l’espansività della politica fiscale. In caso contrario l’inflazione Usa rischierebbe seriamente di sfuggire di mano. La genesi del superdollaro. Non è un caso che in campagna elettorale il neo-presidente Usa abbia tacciato la numero uno della Fed Janet Yellen di essere troppo accondiscendente in materia di tassi, mantenendo troppo a lungo il costo del denaro su livelli estremamente ridotti e consentendo così l’insorgere di bolle speculative.

E non è un caso che la Jellen, nell’audizione al Congresso di giovedì 17, nel ribadire la volontà di portare a termine il suo mandato (che scade a fine gennaio 2018, ndr) abbia sottolineato che il secondo ritocco ai tassi potrebbe essere ormai prossimo e che la banca centrale Usa monitorerà da vicino l’andamento delle variabili macroeconomiche chiave per prevenire spinte indesiderate all’inflazione, sebbene il mercato dei lavoro presenti ancora qualche margine di miglioramento. Il riferimento finale alla possibilità che il mantenimento dei tassi sugli attuali bassi livelli per un periodo di tempo eccessivamente lungo sia in grado di incoraggiare un’eccessiva assunzione di rischio, compromettendo la stabilità finanziaria, è stato poi interpretato così: il 14 dicembre si assisterà al secondo rialzo di un quarto di punto del costo del denaro dopo quello di fine 2015, dopodiché la banca centrale americana potrebbe anche muoversi più velocemente nel corso del prossimo biennio per controbilanciare, appunto, la maggiore espansività della politica fiscale.

Questo è lo scenario che dal 9 novembre, giorno dell’ufficializzazione della vittoria di Trump, è stato progressivamente scontato nei prezzi dei titoli di Stato americani: da quel giorno il segmento dei Tips, ossia i T-bond legati all’inflazione (tipo il Btp Italia o il Btpei), ha registrato un cedimento del prezzo che ne ha innalzato il rendimento dello 0,32-0,35%, implicando un tasso di inflazione in crescita dall’1,6% attuale verso la soglia del 2% entro i prossimi 12 mesi. Le stesse attese inflative, e le mosse conseguenti della Fed, hanno mosso al ribasso i prezzi di T-Bond e T-Note (i classici titoli di Stato a tasso fisso) portando il rendimento del decennale dall’1,77% del 4 novembre al 2,3% di oggi e quello del trentennale dal 2,59 al 3,1%; di rilievo anche il balzo dei rendimenti del quinquennale, passati dall’1,22 all’1,67%.

A ruota è seguito il dollaro: l’aspettativa di assistere a una Fed meno colomba rispetto al 2016 ha stimolato gli acquisti della valuta statunitense portando a un rafforzamento del cambio contro tutte le divise.

Il cambio dollaro/yen, partito da quota 105 dell’8 novembre, ha infatti conquistato senza indugio l’importante livello di 106,5-107 per fare rotta verso il successivo obiettivo posto a quota 111,5, corrispondente ai massimi da inizio aprile e stimolando gli acquisti di azioni sulla piazza giapponese (+4,6% del Nikkei dall’8 novembre) grazie alla capacità aggiuntiva di export derivante dall’indebolimento dello yen. L’euro/dollaro si è invece lasciato alle spalle la soglia di 1,08 facendo rotta verso l’obiettivo posto tra 1,055 (massimo stato di forza degli ultimi 12 mesi, raggiunto nel dicembre 2015) e 1,045 (massimo dell’ultimo biennio, segnato nel marzo 2015 in scia all’annuncio del Qe da parte della Bce).

Se quota 1,055-1,045 è potenzialmente raggiungibile entro il 4 dicembre, data del referendum italiano (in riferimento al quale l’eventuale vittoria del no costituirebbe un ulteriore motivo di rafforzamento del biglietto verde), la capacità di spingersi poi verso la parità tra euro e dollaro in un’ottica di ampio respiro, ipotizzata da Goldman Sachs per l’ultimo trimestre del 2017, dipenderà molto dal prossimo meeting della Bce in agenda l’8 dicembre: se in quell’occasione verrà ampliato o prolungato il programma di Quantitative easing in atto (il cui termine è al momento formalmente fissato per marzo 2017), allora si amplierà la divergenza tra politica monetaria della Fed (restrittiva) e quella dell’Eurotower (ultraespansiva) rendendo appunto più a portata di mano la parità tra le due valute.

Punta quindi sul dollaro ma evita di regalare commissioni e spread a banche e intermediari del forex. Con ETX , broker autorizzato inglese, potrai pagare uno spread di soli 0,7.

lunedì 14 novembre 2016

La sterlina inglese torna a salire. Previsioni sul cambio

Si rimescolano le carte per la sterlina. La moneta inglese questa settimana è stata sotto la lente dei forex trader per la sentenza dell’Alta Corte inglese, che ha rimandato la decisione sulla Brexit al Parlamento inglese togliendola di fatto al governo. Il cable ha subito reagito alla notizia ridando forza a una sterlina che si stava avvicinando pericolosamente ai minimi di lungo periodo. Nell’arco di due sedute il cambio sterlina contro dollaro è infatti risalito da 1,22 dollari alla chiusura settimanale di 1,2530 dollari. Tecnicamente, per le prossime sedute, potrebbe esserci un ulteriore allungo finanche il target di 1,2850 dollari. Tale livello rappresentava il supporto (ora resistenza) infranto con il famoso flash crash d’inizio ottobre scorso.

La situazione è tuttavia in evoluzione e risulta piuttosto difficile dare con certezza livelli di target. La decisione infatti rischia di alimentare un prolungato dibattito in un parlamento che a stragrande maggioranza è contro la Brexit. I parlamentari inoltre potrebbero voler conoscere in anticipo la strategia negoziale di Theresa May e cercare di mantenere un legame più stretto con l’Europa prima di dare il via libera all’articolo 50. Il premier May vuole tuttavia evitare qualsiasi interruzione al suo programma di uscita dall’Unione Europea ed ha tentato la carta dell’appello presso la Corte Suprema (che dovrebbe pronunciarsi tra il 7 e l’8 dicembre), ma un ribaltamento del verdetto non è affatto scontato.

In tutto questo trambusto, l’unica certezza è la banca centrale inglese guidata da Mark Carney. Il governatore canadese, alla guida dell’istituzione finanziaria britannica, ha perfino deciso di allungare il suo mandato di un anno (fino al 2019) per poter gestire interamente la transizione della Brexit senza creare tensioni da un eventuale avvicendamento di poltrone in un momento molto delicato. Il mandato di Carney originariamente scadeva nel 2018, ma aveva un’opzione per prolungarlo fino al 2021. Il governatore qualche tempo fa però aveva annunciato di non voler esercitare l’opzione fino al 2021 per poter tornare dalla sua famiglia in Canada, tuttavia, con l’esito della Brexit ha dovuto trovare una via di mezzo. Oltre alla dedizione, a Carney, sono universalmente riconosciute una competenza e una sensibilità economica sopra la media, come ha ulteriormente dimostrato con la decisione di questa settimana di mantenere invariati i tassi d’interesse allo 0,25% e il programma di Quantitative easing.

La BoE si era dimostrata pronta dopo l’esito del referendum Brexit, tagliando dello 0,25% il tasso. Esiste però una variabile che potrebbe rendere la vita del governatore piuttosto difficile: l’inflazione. Il comitato di politica monetaria ha fatto capire che, dopo il taglio dei tassi varato ad agosto, non programma altri tagli del costo del denaro per quest’anno ma che anzi i timori per un’accelerazione dell’inflazione potrebbero «ad un certo punto» supportare la prospettiva di una stretta monetaria. Secondo le previsioni della BoE, l’aumento dei prezzi potrebbe triplicare al 2,7% entro la fine del 2017 e salire del 2,8% nel 2018. Secondo le previsioni del National Institute for Economics anda Social Research (Niesr) invece, l’inflazione salirà dallo 0,7 al 4% l’anno prossimo, con il picco massimo che verrà raggiunto nella seconda metà dell’anno prossimo.

mercoledì 9 novembre 2016

Rischi sulla lira turca?

Il Governo di Ankara non vuole altri ribassi e la Banca centrale ha interrotto i tagli Il cambio ne risente La lira turca scivola sempre più in basso schiacciata da una lunga serie di fattori negativi per l’economia del paese. Solo nell’ultimo mese il deprezzamento è stato di circa il 3% nei confronti dell’euro e di oltre il 4% sul dollaro aggiornando ripetutamente record storici al ribasso. Il cambio con il dollaro risulta peggiorativo anche rispetto ai giorni immediatamente seguiti al tentato golpe di luglio ad Ankara. Nella scia della moneta la Borsa di Istanbul rimane una delle più deboli tra quelle emergenti mentre il rendimento dei titoli di Stato decennali hanno superato il 10%.

Contrariamente alle attese giovedì scorso la Banca centrale turca è stata quindi costretta a interrompere la sequenza di ribassi del costo del denaro che durava dallo scorso marzo e ad annunciare il suo impegno nel sostegno alla moneta. Come tutti i Paesi emergenti la Turchia soffre la prospettiva di un’inversione di rotta nelle politiche della Federal Reserve. Il rafforzamento del dollaro infatti tende a drenare capitali da queste aree e complica la vita alle aziende del posto che spesso si indebitano in dollari piuttosto che in valuta locale. In quest’ottica l’economia di Ankara, molto dipendente dagli investimenti esteri e con una bilancia dei pagamenti in forte deficit, è quindi costretta a fare i conti con forze al di fuori del suo controllo.

Ma c’è di più. Dopo il fallito colpo di Stato dello scorso luglio, sul Paese si è abbattuta la “purga” del presidente Recep Tayyip Erdogan che sta colpendo chiunque abbia legami, o sia sospettato di averne, con Fethullah Gulen, predicatore turco rifugiato dal 1999 negli Stati Uniti e ritenuto da Erdogan il mandante del tentato golpe. La rete dei gulenisti occupa posizioni chiave in tutti i settori del Paese, dall’esercito alla magistratura fino all’istruzione e all’imprenditoria. Già 115mila persone sono finite sotto inchiesta e licenziate, di queste 32mile sono in carcere. L’operazione di “pulizia” potrebbe spingersi anche al sequestro di proprietà. I precedenti non mancano: nel 2015 Bank Asya fu sequestrata solo perché appartenente a un oppositore del presidente. Erdogan sta cercando di spingere la riforma costituzionale che ne rafforzerebbe ulteriormente il potere. Questo vacillare dello stato di diritto, con l’indebolimento dello stato di diritto è probabilmente ciò che più intimorisce gli investitori esteri.

Il clima di forte incertezza politico-istituzionale è stato rimarcato anche dalle agenzie di rating Moody’s e Standard and Poor’s che dopo il tentativo di golpe hanno entrambe ridotto il loro giudizio di rating a livello “junk”, ossia un investimento di natura speculativa, suscitando le ire del presidente Erdogan. Sulle casse di Ankara iniziano a pesare anche i costi della guerra in Siria e l’estate ha fatto registrare un drastico calo delle presenze turistiche. Il Fondo monetario internazionale ha limato da + 3,3 a 3% la sua stima sulla crescita del Pil nel 2016.

Come sottolinea Michel Wiskirski, analista azionario Emergenti di Carmignac, «la Turchia rimane dipendente da capitali esterni nella misura di quasi il 4% del Pil. Questi finanziamenti sono però sempre più volatili. Il Paese sta diventando meno attrattivo anche a causa di condizioni fiscali che stanno diventando meno favorevoli rispetto al passato». Difficile decifrare le future mosse della Banca centrale turca sulla cui piena indipendenza dall’Esecutivo è lecito nutrire qualche sospetto. Lo stop alla sequenza di riduzione del costo del denaro deciso giovedì 20 ottobre deve confrontarsi con le pressioni del Governo per il mantenimento di politiche monetarie espansive. Mesi fa si è spinto fino a definire “traditore” chiunque si opponga a una riduzione dei tassi. Un’ingerenza che è alla base del cambio al vertice della banca avvenuto lo scorso maggio.

«Se in generale i banchieri dei mercati emergenti stanno attuando una politica monetaria ortodossa, combattendo l’inflazione e stabilizzandone le aspettative con un certo successo, la Banca centrale di Ankara non lo sta ancora facendo», rimarca ancora Wiskirski. «Prima di giovedì la Banca centrale turca aveva anzi tagliato i tassi in modo aggressivo per stimolare un modello di crescita del consumo guidato dal credito che però la Turchia non può permettersi per sempre», continua l’analista di Carmignac che conclude «il continuo allentamento fiscale e monetario accompagnato dall’incertezza politica non sembrano fornire sostegno a una valuta strutturalmente molto fragile».

lunedì 7 novembre 2016

Attenzione ai consigli Forex su Facebook

Verifiche sui «social» per accertare attività di investimento illecite Anche da Facebook, il noto social media, prendono le mosse le verifiche e gli accertamenti della Consob sulle attività di abusivismo finanziario che si muovono sul mercato. E così l’authority di vigilanza ha scoperto che un broker italo-svizzero, proprio su Facebook, si presentava sul mercato come «Trader e Forex & commodities professionista» dichiarando di svolgere l’attività di gestore di patrimoni. Lo faceva asserendo di proporre operazioni online sul mercato del Forex (valute e commodities) attraverso la propria fiduciaria con base in Svizzera consistenti in un ventaglio di opzioni online.

Un esempio: 1) Una gestione «advisor/trader degli account» aperti dai clienti con capitale minimo 100mila euro con la suddivisione del 50% dei guadagni che realizzerebbe; 2) una redditività pari al 30% annua sul capitale gestito garantito con fidejussione bancaria emessa da (...) o da (...) con scadenza a 365 giorni a prima richiesta sia del capitale sia della redditività. Il trader poi prospettava performance mensili variabili dal 60% al 90% del capitale gestito e dichiarava che “attualmente” starebbe gestendo patrimoni per complessivi 20 milioni di euro. A quel punto la Consob ha deciso di intervenire inviando al trader un “richiamo d’attenzione” seguito da un’analoga comunicazione. Alle due comunicazioni il trader, scoperto, ha risposto alla Consob via mail dichiarando di «non svolgere alcuna attività di trader con denaro reale».

Ulteriori comunicazioni via posta elettronica hanno portato il trader a dichiarare che i contenuti pubblicati nelle pagine web a lui riconducibili sarebbero stati “opera di fantasia” e di non essere mai stato contattato da «nessun soggetto per eventuali servizi». Ma ulteriori accertamenti hanno permesso di accertare che, in realtà, il servizio veniva davvero offerto ai clienti. Risultato: 50mila euro di sanzione.

mercoledì 2 novembre 2016

Presidenziali Usa, puntare sul dollaro?

Neppure un risultato shock alle presidenziali cambiano il corso della valuta influenzata solo dal rialzo dei tassi A interrompere l’andatura forte del dollaro, indisturbata da mesi tra piccoli rallentamenti e rincorse improvvise, basterebbe uno shock esterno come il risultato delle presidenziali americane? Secondo molti osservatori l’effetto è incerto e timido. Alcuni sostengono che una vittoria di Trump potrebbe portare a flussi verso il dollaro in cerca di riparo. «Personalmente dubito che la vittoria di uno o dell’altro dei candidati possa modificare il corso della valuta - risponde Joachim Corbach, responsabile valute e materie prime di GAM - Fino a questo momento, l’unica valuta che sembra essere veramente influenzata dal risultato elettorale è il peso messicano». Secondo molti osservatori è più probabile che il cambio euro/dollaro rimarrà vicino agli attuali livelli, indipendentemente da quale sarà il risultato delle urne. La ragione? Il mercato in questo momento sta scontando il rialzo dei tassi di interesse americani, atteso in dicembre.

 «Da più di un anno sosteniamo che, se la Fed si muoverà, lo farà in dicembre - spiega Matteo Paganini, chief analyst di FXCM - quindi secondo noi oggi il mercato sta scontando questo possibile rialzo dei tassi. In virtù di questo mi aspetto nelle prossime due o tre settimane un allungo del dollaro su tutte le valute per poi salire in modo strutturale e raggiungere un rapporto euro dollaro tra 1.04/1.05».

Secondo Paganini, se il dollaro dovesse raggiungere questo livello prima di novembre, non si esclude un ulteriore rialzo valutario «ma non eccessivo - aggiunge l’esperto - perché per l’economia Usa il dollaro forte è un fattore neutro se resta nella fascia tra 1,05 e 1,15. A questi livelli non crea problemi nè all’export (in realtà l’economia è sostenuta soprattutto dalla domanda interna) nè all’approvigionamento di materie prime». Guardando al rapporto con le altre valute, se al momento il rally sulle materie prime favorisce il dollaro canadese e quello austrialiano, decisamente più forti di quello americano, il rapporto con lo yuan risente della pressione della Banca centrale cinese che continua a svalutare lo valuta nazionale per favorire l’export cinese. E il rapporto con la valuta nipponica? I futuro del cross dollaro/yen dipende più dalla valuta nipponica che dal biglietto verde.

Le ultime misure della BoJ hanno destato confusione. Alcuni analisti le hanno perfino interpretate come restrittive. Corbach, però, non è d’accordo con questa tesi: «Le misure sono radicali - spiega. - L’unica domanda da porsi è quanto siano credibili. In particolar modo sembra mancare di attinenza alla realtà, l’annuncio di voler permettere che l’inflazione superi il target del 2% mentre la Banca Centrale nipponica non riesce nemmeno a portarla in maniera sufficiente al di sopra dello zero». Infine, merita una riflessione il rapporto tra dollaro e sterlina. «La valuta britannica - conclude Paganini - rispetto al dollaro potrebbe perdere ancora rispetto ai valori attuali e arrivare sotto i minini raggiunti quest’anno». Insomma, non è ancora arrivato il momento di comprare sterlina perché l’effetto brexit e il rafforzamento dollaro potrebbero non aver finito il loro effetto.

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