A distanza di otto sedute
dalle elezioni Usa
i mercati finanziari
hanno confermato la
prima forte reazione
al risultato delle urne: il dollaro
ha proseguito la sua corsa, i
mercati obbligazionari internazionali
hanno reiterato il balzo
dei rendimenti e i metalli preziosi,
oro in testa, si sono assestati
su un livello di prezzo vistosamente
più basso rispetto alla
vigilia del voto.
Nel frattempo
Wall Street viaggia su quotazioni
record, spinta dai settori più
favoriti dalla Trumpeconomy e
dai titoli a media capitalizzazione,
che, avendo all’interno
dagli Stati Uniti la gran parte
del proprio business, si trovano
meno esposti al superdollaro e
alle possibili rivisitazioni delle
politiche americane rispetto al
commercio con l’estero.
Superdollaro di cui hanno goduto i frutti coloro che hanno puntato, come suggerito, sulla moneta americana contro l'euro (utilizzando il broker
ETX , che offre le migliori condizioni di spread sulla coppia eur-usd e non solo).
Questo
quadro non lascia dubbi interpretativi:
l’aumento della
spesa pubblica finalizzata soprattutto
alla realizzazione di
infrastrutture e la riduzione
delle imposte, che si trovano
ai primi posti del programma
elettorale di Donald Trump per
un importo che potrebbe essere
nell’ordine di 1.000 miliardi
di dollari, sono elementi tali da
spiazzare l’attuale politica monetaria
espansiva della Federal
Reserve, che quindi dovrà necessariamente
diventare più
restrittiva per controbilanciare
l’espansività della politica fiscale.
In caso contrario l’inflazione
Usa rischierebbe seriamente di
sfuggire di mano.
La genesi del superdollaro.
Non è un caso che in campagna
elettorale il neo-presidente Usa
abbia tacciato la numero uno
della Fed Janet Yellen di essere
troppo accondiscendente in
materia di tassi, mantenendo
troppo a lungo il costo del denaro
su livelli estremamente ridotti e
consentendo così l’insorgere di
bolle speculative.
E non è un caso
che la Jellen, nell’audizione
al Congresso di giovedì 17, nel
ribadire la volontà di portare
a termine il suo mandato (che
scade a fine gennaio 2018, ndr)
abbia sottolineato che il secondo
ritocco ai tassi potrebbe essere
ormai prossimo e che la banca
centrale Usa monitorerà da
vicino l’andamento delle variabili
macroeconomiche chiave per
prevenire spinte indesiderate
all’inflazione, sebbene il mercato
dei lavoro presenti ancora qualche
margine di miglioramento.
Il riferimento finale alla possibilità
che il mantenimento dei
tassi sugli attuali bassi livelli
per un periodo di tempo eccessivamente
lungo sia in grado di
incoraggiare un’eccessiva assunzione
di rischio, compromettendo
la stabilità finanziaria, è stato
poi interpretato così: il 14
dicembre si assisterà al secondo
rialzo di un quarto di punto
del costo del denaro dopo quello
di fine 2015, dopodiché la banca
centrale americana potrebbe
anche muoversi più velocemente
nel corso del prossimo biennio
per controbilanciare, appunto,
la maggiore espansività della
politica fiscale.
Questo è lo scenario che dal 9
novembre, giorno dell’ufficializzazione
della vittoria di Trump,
è stato progressivamente scontato
nei prezzi dei titoli di Stato
americani: da quel giorno il segmento
dei Tips, ossia i T-bond
legati all’inflazione (tipo il Btp
Italia o il Btpei), ha registrato
un cedimento del prezzo che ne
ha innalzato il rendimento dello
0,32-0,35%, implicando un tasso
di inflazione in crescita dall’1,6%
attuale verso la soglia del 2% entro
i prossimi 12 mesi. Le stesse
attese inflative, e le mosse conseguenti
della Fed, hanno mosso
al ribasso i prezzi di T-Bond e T-Note (i classici titoli di Stato
a tasso fisso) portando il rendimento
del decennale dall’1,77%
del 4 novembre al 2,3% di oggi e
quello del trentennale dal 2,59
al 3,1%; di rilievo anche il balzo
dei rendimenti del quinquennale,
passati dall’1,22 all’1,67%.
A
ruota è seguito il dollaro: l’aspettativa
di assistere a una Fed
meno colomba rispetto al 2016
ha stimolato gli acquisti della
valuta statunitense portando
a un rafforzamento del cambio
contro tutte le divise.
Il cambio dollaro/yen, partito
da quota 105 dell’8 novembre,
ha infatti conquistato senza
indugio l’importante livello di
106,5-107 per fare rotta verso
il successivo obiettivo posto a
quota 111,5, corrispondente ai
massimi da inizio aprile e stimolando
gli acquisti di azioni
sulla piazza giapponese (+4,6%
del Nikkei dall’8 novembre) grazie
alla capacità aggiuntiva di
export derivante dall’indebolimento
dello yen. L’euro/dollaro
si è invece lasciato alle spalle la
soglia di 1,08 facendo rotta verso
l’obiettivo posto tra 1,055 (massimo
stato di forza degli ultimi
12 mesi, raggiunto nel dicembre
2015) e 1,045 (massimo
dell’ultimo biennio, segnato nel
marzo 2015 in scia all’annuncio
del Qe da parte della Bce).
Se
quota 1,055-1,045 è potenzialmente
raggiungibile entro il 4
dicembre, data del referendum
italiano (in riferimento al quale
l’eventuale vittoria del no costituirebbe
un ulteriore motivo di
rafforzamento del biglietto verde),
la capacità di spingersi poi
verso la parità tra euro e dollaro
in un’ottica di ampio respiro,
ipotizzata da Goldman Sachs
per l’ultimo trimestre del 2017,
dipenderà molto dal prossimo
meeting della Bce in agenda l’8
dicembre: se in quell’occasione
verrà ampliato o prolungato il
programma di Quantitative easing
in atto (il cui termine è al
momento formalmente fissato
per marzo 2017), allora si amplierà
la divergenza tra politica
monetaria della Fed (restrittiva)
e quella dell’Eurotower (ultraespansiva)
rendendo appunto più
a portata di mano la parità tra
le due valute.
Punta quindi sul dollaro ma evita di regalare commissioni e spread a banche e intermediari del forex. Con
ETX , broker autorizzato inglese, potrai pagare uno spread di soli 0,7.